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Cronaca Angri

Angri, "ci trattò in malo modo": i killer mentirono sul tentato omicidio all'imprenditore

Questo quanto emerge dalle motivazioni della condanna emessa nei mesi scorsi a carico degli imputati, riconosciuti colpevoli di tentato omicidio per quanto accaduto il 25 maggio di un anno fa, nei pressi del cavalcavia di via delle Fontane ad Angri

Avevano chiesto lavoro all’imprenditore angrese, che li aveva trattati in malo modo, fino a minacciarli di non farsi più vedere. Era questo, nella versione dei fatti resa in udienza davanti al gup, la difesa dei due paganesi, accusati del tentato omicidio dell'imprenditore di Angri. Questo quanto emerge dalle motivazioni della condanna emessa nei mesi scorsi a carico degli imputati, riconosciuti colpevoli di tentato omicidio per quanto accaduto il 25 maggio di un anno fa, nei pressi del cavalcavia di via delle Fontane ad Angri.

Le motivazioni

I due «volevano dargli una lezione per intimorirlo», e per questo erano andati in moto, con una pistola detenuta da uno dei due, ad Angri. Sempre nella loro ricostruzione, la vittima li avrebbe invece intimoriti, così da convincerli ad esplodere colpi di pistola nella portiera, con lo stesso 41enne di Angri a speronarli. Solo allora, A.M. racconta di aver sparato in alto per poi scappare. Il gup del Tribunale di Salerno non ha creduto alla spiegazione, definita inattendibile, perché con evidenza e prove «gli attentatori sparavano più colpi anche ad altezza d’uomo», con chiara volontà di uccidere. Ancora, il racconto dei due ragazzi di Pagani descriveva una manovra di disturbo della vittima prima dell’esplosione dei colpi. Ma per il giudice «si tratta di un vano tentativo di ridimensionare l’obiettivo concretamente avuto, indicato come quello di intimorire C. , responsabile di una risposta in malo modo ad una richiesta di lavoro. Ma per la messa in atto di un gesto dimostrativo sarebbe stata sufficiente anche l’esplosione di un solo colpo, mentre invece gli spari avvenivano reiteratamente per almeno tre volte».

L'aggravante

Il gup non ha ravvisato l’esistenza di un clan di riferimento, senza elementi di certezza dello specifico gruppo camorristico in favore del quale agivano, nemmeno individuato in imputazione, né che lo stesso esista effettivamente. Per quanto riguarda l’aggravante, invece, la messa in atto di una «vera e propria esecuzione, da parte di soggetti che agivano con volto travisato, appare un comportamento espressivo di una portata intimidatoria notevolmente amplificata, carica di valore simbolico, con atti propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale». L’agguato fu configurato in un contesto di natura estorsiva, «con direttive realisticamente impartite da soggetti terzi di ben più ampio spessore criminale, non potendo nemmeno immaginarsi che in un territorio notoriamente controllato da organizzazioni criminali, una tale decisione sia riconducibile a libere iniziative di N.L. e A.M.». 

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